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IL SIGNIFICATO DI COMPASSIONE IN NICHIREN DAISHONIN

IL SIGNIFICATO DI COMPASSIONE IN NICHIREN DAISHONIN

L’intera esistenza di Nichiren è stata un esempio di compassione, di amore incondizionato, di benevolenza e di grande coraggio.
Ha affrontato e sopportato persecuzioni, calunnie, solitudine.

Scrive Ikeda nel Volume 3 de La saggezza del Sutra del Loto:

Compassionevoli sono coloro che condividono sinceramente le preoccupazioni altrui, che hanno davvero a cuore gli altri e pregano per aiutarli a superare i loro problemi come se fossero i propri, che sono severi ma compassionevoli, che sono gentili. La compassione è il requisito fondamentale di un leader. 

Non c’è nulla di così potente come la benevolenza. Accende la luce della speranza nei cuori delle persone. La benevolenza è il vero potere gentile, il potere della compassione, la benevolenza degli esseri umani. Il termine potere gentile indica una benevolenza illimitata che genera una forza illimitata. Senza forza, non possiamo mostrare benevolenza verso gli altri.

La consapevolezza che c’è qualcuno che si preoccupa di noi e ci ama incondizionatamente ci dà la volontà di vivere.

L’intera esistenza di Nichiren è stata un esempio di compassione, di amore incondizionato, di benevolenza e di grande coraggio.

Ha affrontato e sopportato persecuzioni, calunnie, solitudine, condizioni di vita estreme, il dolore di essere allontanato dal suo paese durante l’esilio a Izu nel 1261 e quello a Sado nel 1271 e se è riuscito a sopravvivere alle grandi avversità non è stato solo grazie alla sua grande fede nel Sutra del Loto ma anche grazie al desiderio profondo che l’intera umanità potesse formare un legame con esso, perché chiunque potesse illuminarsi. E’sopravvissuto alle più incessanti sofferenze per realizzare la sua missione. Ha offerto la sua vita per la Legge Mistica, per tutti noi. Spinto dal desiderio di illuminare le coscienze.

Nel 1253, dopo avere studiato approfonditamente tutti i Sutra, a soli 32 anni presso il tempio di Seicho ha proclamato per la prima volta pubblicamente Nam Myoho Renge Kyo confutando il Nembutsu e gli altri insegnamenti Zen, dichiarando che NMHRK era l’unico insegnamento corretto che poteva portare tutte le persone dell’Ultimo giorno della Legge all’illuminazione.

Ventisei anni dopo nel 1279, dopo avere sperimentato NMHRK nella sua vita e aver fatto emergere la sua buddità, l’ha iscritta nel Gohonzon incidendola sul legno con inchiostro di sumi per tutti noi. Sapeva che gli esseri umani avrebbero avuto bisogno di un oggetto di culto di fronte al quale porsi per osservare il mondo di buddità inerente alla propria vita.

Fino al suo ultimo istante di vita, anche quando all’età di 52 anni si ritirò sul Monte Minobu dov’è morto nel 1282 all’età di 60 anni, ha continuato a recitare il Sutra del Loto, a incoraggiare e a lottare per ognuno di noi.

Quell’amore e quella compassione la ritroviamo in ogni Gosho e nei Trattati che sono giunti fino a noi.

Ma cosa significa esattamente la parola compassione e che significato acquisisce nella pratica Buddista secondo la visione di Nichiren Daishonin?

Il termine compassione deriva dal latino cristiano cum che significa insieme e patior che significa soffrire. Cioè soffrire con l’altro.

Il contrario della compassione è l’indifferenza, il menefreghismo, l’odio, l’astio, la rivalità.

In giapponese il termine compassione è Jihi, dove Ji sta per togliere la sofferenza e Hi mettere gioia.

Come occidentali che praticano il buddismo, educati da una cultura cristiana, il rischio che possiamo correre è quello di interpretare questo termine in base a un concetto di pietà, di compatimento e pena, forme in cui nei secoli la parola compassione è stata declinata, divenendo parte della nostra cultura, di quell’inconscio collettivo al quale tutti attingiamo. Pertanto, potremmo associare il concetto di compassione alla misericordia cristiana divenendo così troppo permissivi e indulgenti di fronte all’atteggiamento errato di qualcuno o di una collettività, con la conseguenza di non riuscire a essere talvolta quel buon amico che al momento giusto sa trovare le parole e i modi per risvegliare la buddità dell’altro, oppure potremmo cadere nell’errore di essere disposti a subire qualsiasi offesa in nome del fatidico principio cristiano del porgere l’altra guancia.

Alcuni, invece, trovano nella severità, che è un tratto della compassione buddista, il sentirsi autorizzati al rimprovero, al giudizio, alle aspre critiche nei confronti dell’altro, a parole dette con eccessivo fervore. Con la convinzione di dover ammonire l’oscurità dell’altro. Confusi dal fatto che poiché la compassione buddista non significa provare pena per qualcuno, né ha a che vedere con la misericordia cristiana, sia loro compito e loro diritto risvegliare chiunque e correggerlo. Con la conseguenza inevitabile di scivolare nell’arroganza, nella superbia e di ferire con modi e parole spesso dure piuttosto che severe e di ottenere un risultato talvolta peggiore di quello desiderato. E’chiaro che tutto questo avviene in buona fede e nella totale inconsapevolezza di chi lo agisce.

Spesso crediamo che severità e durezza siano la stessa cosa. Ma non è così. E questo è un punto importante su cui riflettere.

Sia il primo che il secondo caso ben poco si avvicinano al profondo significato di compassione buddista che Nichiren Daishonin ci ha trasmesso con il suo esempio e attraverso i suoi Gosho.

D’altronde, sappiamo che ognuno di noi guarda ai fatti della vita dalla settima coscienza, che è la nostra mente; quindi, con credenze e convinzioni che appartengono a questa vita in base alla propria educazione sociale e familiare, oltre a essere influenzati dall’ottava coscienza, cioè da memorie che provengono dall’infinito passato, poiché l’ottava coscienza è la sede del Karma. In altre parole, senza il Daimoku che ci permette di andare oltre la settima e l’ottava coscienza e di giungere alla nona, che è la coscienza del Tutto, libera dal Karma e da qualsiasi condizionamento e che è lo stato in cui ci illuminiamo, comprendere il senso profondo di compassione buddista è difficile e corriamo il rischio di scivolare in interpretazioni soggettive che sono ben lontane dal suo reale significato.

Riprendendo le parole del nostro Maestro Ikeda che ho letto all’inizio egli dice: compassionevoli sono coloro che sono severi ma compassionevoli. Non dice severi e compassionevoli. Dice severi ma compassionevoli.

Quel ma dice tutto. In quella severità c’è amore, un amore incondizionato verso chiunque.

Senza amore, senza una vera capacità di amare incondizionatamente ogni essere vivente, chiunque diverso da noi, non può esistere quella compassione che Nichiren ci ha mostrato e che ci ha lasciato come esempio da poter seguire. E’da quella capacità di amare incondizionatamente, che possiamo provare compassione anche verso chi ci ha fatto del male, o verso chi non ci piace. E sono proprio questi ultimi gli aspetti spesso più difficili da realizzare per noi esseri umani.  Ma è proprio lì che misuriamo la nostra reale capacità di amare, di compassione buddista e di comprensione dell’esistenza, che possono essere raggiunte solo attraverso la preghiera, lo studio e la fede. Una compassione che nulla ha a che vedere con la pena e che non è neppure tolleranza. E’solo quando comprendiamo profondamente che siamo interconnessi a tutti gli altri esseri umani, a tutti gli esseri viventi, con il cosmo e l’infinito tutto indipendentemente dalla distanza, dal fatto che l’altro sia buono o cattivo, che ci piaccia oppure no e che l’oscurità e la buddità di chiunque è anche in noi, che possiamo diventare compassionevoli nel modo in cui Nichiren ci ha mostrato. Allora non sarà impossibile desiderare sinceramente che chiunque diventi felice, che manifesti cioè la sua buddità, anche colui che riteniamo il peggiore dei nostri nemici. Non ci sarà difficile sentirci profondamente addolorati per chi si perde nei bassi sentieri, anche se riguarda qualcuno che non ci piace. Perché siamo divenuti consapevoli che il risveglio di ogni persona vibra nel tutto, visto che tutto è energia, quindi per risonanza anche in noi.

Per lo stesso principio, quando incoraggiamo qualcuno, incoraggiamo la nostra stessa vita. Ma altrettanto quando attacchiamo, aggrediamo, rimproveriamo senza amore, senza quella severità compassionevole lo facciamo anche nei confronti di noi stessi, della nostra vita.

La compassione che Nichiren ci ha mostrato non è qualcosa che può essere compreso intellettivamente, solo attraverso uno studio profondo. E’ piuttosto una presa di responsabilità, un elemento importante della nostra rivoluzione umana ovvero del nostro cambiamento interiore nel divenire esseri illuminati.

E’partendo da quella capacità di amare che possiamo essere realmente compassionevoli ma severi, come lo sarebbe un genitore (che è una delle tre virtù del Budda, come scrive Nichiren nel trattato L’apertura degli occhi) che non smette di amare i propri figli anche quando li rimprovera, quando li guida, li corregge o anche quando li vede percorrere sentieri sbagliati.

E’quell’amore e quella compassione che troviamo, ad esempio, nel Gosho I quattro debiti di gratitudine, che Nichiren ha scritto durante il suo esilio a Ito, nella penisola di Izu. Egli scrive di provare una grande sofferenza e di essere addolorato al pensiero della pesante retribuzione karmica a cui andranno incontro i suoi persecutori. Nelle parole di Nichiren si percepiscono tutta la sofferenza e il dolore di un uomo che ha compreso e soffre profondamente per il destino dei suoi persecutori che finiranno nell’inferno di incessante sofferenza.

E’amore e severa compassione quando Nichiren nel Gosho Risposta a Niiama (1275) rifiuta di iscrivere un Gohonzon per Oama, suocera o forse nonna di Niiama, perché sapeva che la fede di Oama vacillava, perché era insincera e sciocca, a volte aveva fede e a volte dubitava.

Ma come possiamo raggiungere questo equilibrio? come possiamo manifestare quel tipo di amore e severa compassione che è caratteristica fondamentale del Budda? Come possiamo capire quale sia l’atteggiamento giusto da adottare in ogni circostanza, perché la compassione non sia la misericordia cristiana né la durezza di un cuore chiuso che si illude di essere amorevole e severo? La preghiera è il primo passo. Altrettanto importante è lo studio, ma sempre partendo dalla recitazione di NMHRK, perché è quella vibrazione che ripulisce i nostri sensi, che ci fa comprendere e vedere le cose con gli occhi del Budda e non attraverso il nostro karma. E’nel cercare il cuore del Maestro, è chiedersi cosa farebbe in quella determinata situazione. Risposte che possono giungere a noi solo attraverso la preghiera. Per non essere vittime inconsapevoli della nostra mente e del nostro karma che crede di avere compreso tutto.

Poiché tutto parte sempre dalla preghiera, come scrive Ikeda (BS nr. 217).

Toda diceva che è dalla compassione che nasce il coraggio. Alla luce di tutto questo, queste parole assumono un significato ancora più profondo. Non è il coraggio di dire ciò che pensiamo a chiunque. O perlomeno non solo.

E’il coraggio di amare incondizionatamente.

E’ il coraggio di ammonire con amore

E’Il coraggio di desiderare il bene per chiunque

E’ il coraggio di pregare e agire perché chiunque si risvegli e diventi felice

E’ il coraggio di denunciare il male. Ma è anche il coraggio di vedere che il male dell’altro è anche dentro di noi

E’ quella benevolenza illimitata che genera una forza illimitata.

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